L’ocarina è uno strumento musicale popolare a fiato, appartenente alla famiglia dei flauti, ed è appunto un flauto globulare di terracotta a forma ovoidale allungata, proprio come una piccola oca senza testa, con un’imboccatura a lato, e nel corpo praticati vari fori che, scoperti gradualmente mentre contemporaneamente si soffia nell’imboccatura, danno l’estensione fino all’undicesima. Oltre alla diatonica è possibile, mediante una digitazione composta, eseguire anche la scala cromatica. Il timbro varia con la dimensione, da molto squillante e penetrante nella più piccola, a più scuro e rotondo nella più grande.

L’inventore dell’ocarina di Budrio: Giuseppe Donati

Giuseppe Donati nato a Budrio il 2 dicembre 1836. Di lui si sa che suonava il clarino nella banda di Budrio e l’organo nelle chiese, aveva studiato alle scuole elementari e aveva imparato anche la teoria musicale.

Un giorno gli gli venne in mente di fare uno scherzo. Immaginò, cioè, uno strumento musicale simile alle ocarine di terra cotta che si vendono ancora nelle fiere, col becco, colla coda e panciute. La differenza tra queste e quella era di genere musicale. Poiché l’ocarina, vuota internamente, col becco aperto e con quattro fori ai fianchi, suonava. Con essa si poteva eseguire qualche facile melodia, contenuta però nell’estensione di un’ottava.


Lo scherzo piacque ai musicisti di Budrio e il Donati ne concepì un altro, stavolta, però non sonoro. Eseguì con della creta un oggetto somigliante a una cornetta. Ma continuando a maneggiarlo, l’oggetto si spezzò: caddero l’imboccatura e la canna conduttrice del fiato. La parte superstite mantenne una forma tale che rivelò al Donati l’ocarina definitiva, quella destinata alla popolarità. Egli si diede a fabbricarne altre forando buchi per tutte le dieci dita in posizioni comode.

Trascorsero giorni febbrili per il giovane inventore, allora diciassettenne. Tutta Budrio lo seguiva e sperava in lui. L’odierna città delle ocarine, nonché delle tagliatelle, tanto cara ai Bolognesi che la scelgono a meta di loro passeggiate festive, presentiva il suo destino. L’ocarina del Donati, infatti, la riempì di gloria … Il primo sprazzo di luce l’avvolse quando Donati ebbe compiute cinque ocarine, di grandezze diverse, le quali comprendevano insieme, tra bassi e acuti, un’estensione di note pari a quella del pianoforte. I cinque strumenti passarono ad altrettanti suonatori scelti fra i più appassionati musicanti di Budrio, tra i quali Donati stesso. Essi formarono il “Concerto delle ocarine” e fecero la felicità del paese per qualche settimana: andarono tutte le sere a suonare in osterie e in case private.

L’esordio e i primi concerti

Il loro repertorio dapprima non comprendeva che musica da ballo, poi introdussero anche la musica d’opera. Il concerto eseguiva nientemeno che il Miserere del Trovatore e il Preludio della Traviata. La sua fama oltrepassò ben presto le mura cittadine, giungendo a molti chilometri di distanza: per esempio a Molinella. Nel teatro di Molinella lavorava allora una compagnia di comici, ma gli affari andavano male: il pubblico disertava e i comici digiunavano. Occorreva qualche spettacolo che richiamasse gente: le ocarine di Budrio. L’impresario del teatro disgraziato si recò a parlamentare coi concertisti di ocarine, offrendo loro viaggio e cena gratuiti. Non c’erano che otto chilometri da fare tra Budrio e Molinella e la proposta attrasse i suonatori. Serata indimenticabile fu per i suonatori e per Molinella quella del concerto. Il teatro: “un pienone”. Si raccolsero innumerevoli applausi per i concertisti e tanti quattrini per i comici da offrire il modo a costoro di non farsi mai più vedere. L’aver cominciato con un atto di carità, portò fortuna ai concertisti. Il loro successo venne segnalato subito da un giornale di Bologna. Da questa città partì immediatamente alla volta di Budrio il proprietario del teatro Brunetti. Il sagace proprietario scritturò il quintetto per due concerti a duecento lire a testa. Fu un trionfo. Il pubblico volle la replica di tutto il programma. La fortuna del quintetto era fatta. Da Bologna questo passò a Ferrara, poi a Padova e a Trieste. Qui incominciarono le prime contrarietà: l’impresario teneva per sé gli incassi. I suonatori pensarono che suonare per niente era troppo poco. Trovarono allora un impresario meno egoista che li scritturò per Roma. La scrittura era originale: si trattava di eseguire dei pezzi tra un intermezzo e l’altro dell’opera Rigoletto, all’Argentina, e tutto ciò a settanta lire per ogni suonatore. Dopo il soggiorno a Roma ecco i suonatori sulla via del ritorno. Passando per Fano un loro concittadino li invita a dare un concerto in quel teatro. Ma il compenso – duecento lire in tutto: più di così non è possibile – non soddisfa il basso, il quale pronuncia per la prima volta il suo motto: “Me per poc an sòn brìsa!”. Il concerto non si dà e il quintetto continua la propria strada, ormai agitato da malumori. A Rimini un altro concittadino rinnova ai concertisti la proposta rivolta loro a Fano, nelle identiche condizioni. Ma il basso interviene e ripete: “Me per poc an sòn brisa!”. Le cose prendono una brutta piega. Il basso ha un carattere difficile. Il quintetto ormai non è più in accordo come prima, è diviso in due tendenze, una delle quali è rappresentata dal fiero basso. Per fortuna la comitiva s’incontra in una compagnia di cinesi – giocatori di prestigio – colla quale si reca a Trieste a dar spettacoli. A Trieste altra scissura tra suonatori e cinesi. Questi non rispettano i patti contrattuali e gli altri tornano a Budrio. Il quintetto muore dov’era nato. L’inventore dell’ocarina tornò alla fabbrica dello strumento di terracotta. Si recava ogni domenica a vendere alle fiere dei dintorni, con ottimo successo. Riesce anche a combinare degli splendidi affari con commercianti di Germania e Austria. Trasportò poi la fabbrica da Budrio a Bologna, e – dopo molti anni – da Bologna a Milano. Migliaia di ocarine uscirono dalle sue mani e migliaia di lire egli incassò. Donati ora dice: “Fui ricco ma a-i-ho ciapé dal gran batoust!”. Con ciò egli vuol dire che molte sventure di famiglia hanno aperto dei gran buchi nelle finanze. Fino a poco tempo fa il vecchio viveva in una stanza della casa, ora in demolizione, di via Palestrina. Gli facemmo visita. L’inventore era uno degli sfrattati, si angustiava per non poter trovar casa, temeva di diventare un “senza tetto”. Per lui cambiar casa era un gran problema: dove trovare un altro forno per cuocervi le ocarine. Egli in via Palestrina sembrava uno dei vecchi misteriosi, leggendari, che cercano l’elisir per vivere in eterno: con una grande veste da camera avvolta intorno al corpo ossuto e lungo, con una oscura berretta da notte in capo. La veste era antica come lui, tinta di colori oscuri, vari, indeterminati; sdrucita e unta. E il suo volto settantenne era ravvivato dagli occhi lustri, mobili, acuti; dal candore e dalle fluidità della barba; dalla sua espressione arguta, petroniana… Invece di filtri aveva intorno ocarine, pinzette, stampi, blocchi di creta. Lavorava come avesse avuto diciotto anni: finiva come aveva cominciato.

I costruttori di ocarine

Il primo costruttore di ocarine fu lo stesso inventore Giuseppe Donati, che si formò un apposito laboratorio, prima a Budrio, poi a Bologna, infine a Milano.

Nel 1870 cominciarono a fabbricare ocarine a Parigi due budriesi, già membri del complesso ocarinistico locale, Ercole ed Alberto Mezzetti, che poi si separarono, ed Alberto aprì un proprio laboratorio a Londra.

Nel 1878 a Budrio, quando Giuseppe Donati era già emigrato a Bologna, cominciò Cesare Vicinelli a fabbricare ocarine nel luogo detto “Fornace Silvani”. Figlio di un fornaciaio ed anche lui fornaciaio esperto, inoltre buon conoscitore della musica e suonatore, oltre che dell’ocarina, della chitarra, del trombone e del bombardino, fece ocarine che incontrarono subito molto favore, per le qualità sonore, l’intonazione e l’estetica; ideò pure degli appositi stampi, in questo modo riuscì a produrre ocarine in quantità molto superiore a quella prodotta dal Donati stesso. Cesare Vicinelli, quando muore, nel marzo del 1920, lascia il suo laboratorio e la sua casa, con tutto l’arredamento e tutti gli attrezzi, a Guido Chiesa, che già da ventiquattro anni l’aiutava, dietro saltuari compensi.

Guido Chiesa , nato nel 1884, aveva allora già trentasei anni, e fino ad allora era vissuto prevalentemente lavorando coi propri genitori, che facevano gli ortolani. Dal Vicinelli che lavorava circondato di segreti, non aveva imparato molto; ma coi suoi strumenti, ingegno e notevole istinto musicale riuscì a conservare il buon nome del laboratorio budriese. Ha fabbricato in media dalle venti alle trenta ocarine al giorno, spedite poi un po’ in tutte le parti del mondo.

Contemporaneo di Chiesa è un altro budriese: Emilio Cesari. Conoscitore della musica e valente suonatore di corno, il Cesari aveva lavorato nel laboratorio di Cesare Vicinelli quand’era ancora allievo del Conservatorio di Bologna, ed aveva poi attrezzato un laboratorio proprio, in località Creti di Budrio, ove aveva fabbricato ocarine dal 1920 al 1927, anno nel quale era emigrato a Bologna. Dal 1925 al 1927 aveva anche diretto il gruppo ocarinistico budriese, da lui stesso riorganizzato, ed era divenuto così anche un abile ocarinista, ma dopo d’allora non si esibì più in pubblico con quello strumento, se non in trattenimenti di carattere famigliare. Trasferitosi poi a S. Remo, come suonatore dell’orchestra del Casinò di quella città, nel 1940 circa aveva ripreso anche la sua attività di fabbricante d’ocarine, nella quale doveva presto acquistare una certa rinomanza sia in Italia che all’estero.

Altro costruttore budriese è stato Arrigo Mignani, entrato a far parte del concerto delle ocarine di Budrio nel 1963, egli si interessò alla costruzione di questo strumento. Contattò Chiesa proponendogli di rilevarne l’attività e chiedendogli di insegnargli a produrre le ocarine. Chiesa pretendeva per la cessione dell’attività la cifra di venti milioni, una somma ritenuta esorbitante da Mignani che proprio in quegli anni aveva comperato una casetta per la cifra di tre milioni. Egli riuscì a mettersi in contatto con gli eredi di Emilio Cesari che gli cedettero per un milione l’attrezzatura, ormai inutilizzata, del costruttore sanremese. Nel 1964 Mignani poté presentare il suo primo concerto di ocarine completo e continuò così la tradizione budriese per ben ventotto anni.

La bottega di Fabio Menaglio

Fabio Menaglio, nato il 2 dicembre 1967, si è diplomato all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, le sue prime esperienze di lavoro sono di disegnatore meccanico e di programmatore. Ha studiato per vari anni chitarra classica e solfeggio presso un maestro del Conservatorio di Bologna ed ora si diletta nel pianoforte ed organo, oltre che naturalmente nell’ocarina. Un tipo di poche parole, perfezionista, porta sulle spalle la responsabilità non indifferente di proseguire con dignità il ministero artigianale, la tradizione e il patrimonio storico dello strumento. Ma lui non sembra affatto preoccupato, anzi, avendo le idee straordinariamente chiare anche nel campo imprenditoriale, ha deciso di far compiere all’ocarina un salto di qualità togliendole anche l’ultima parvenza di “giocattolo musicale” oppure di “strumento per le feste, le fiere, i balli in piazza”, raffinandolo cioè a tal punto da essere un reale strumento da concerto.